Anche i musei nati con le migliori intenzioni hanno bisogno di rinnovarsi. É accaduto, e continua ad accadere, all’Asian Art Museum di San Francisco. L’istituzione ha origine dalla donazione che Avery Brundage, miliardario di Chicago e importante collezionista di arte asiatica, ha elargito a favore della città californiana negli anni Sessanta. Fino alla sua morte nel 1975, Brundage continuò a fare donazioni al museo, fino a nutrire la collezione di più di 7 mila opere d’arte asiatica. Il Museo è così diventato un punto di riferimento sia per la comunità americana (interessata alle espressioni artistiche) sia per quella asiatica che vive negli Stati Uniti (che vi trova un punto di riferimento identitario).
Ed è proprio la sempre più ampia partecipazione della comunità asiatica che ha stimolato una maggiore attenzione e sensibilità nei loro confronti, la quale ha condotto a sua volta negli ultimi anni a delle svolte significative. Ad essere oggetto di riflessione è stato il ruolo stesso dell’Asian Art Museum: è una vasta, ma immobile, collezione di antichità provenienti dall’Asia? Oppure gli asiatici americani dovrebbero essere più presenti nell’Asian Art Museum, partecipare alla sua evoluzione? La seconda visione è quella che ha prevalso. Così, negli ultimi quattro anni, il Museo ha vissuto una rinascita grazie ad Abby Chen. La curatrice, una volta assunto l’incarico di capo del dipartimento di arte contemporanea, ha aperto le sale espositive agli artisti contemporanei asiatico-americani. Se fino al 2015 l’istituzione non aveva nemmeno un’opera realizzata da artisti asiatico-americani, nei successivi tre anni successivo il Museo ha destinato il 6% del suo budget all’acquisizioni di lavori che colmassero questa lacuna. Dal 2019 in poi, ovvero dall’insediamento di Chen, la percentuale è salita al 50%.
Accanto a questo lavoro sul contemporaneo, i dirigenti del Museo si sono inoltre concentrati sul ripensamento della collezione antica, ma anche del ruolo del suo stesso fondatore. Un busto di Avery Brundage, su cui pende un sospetto di vicinanza al nazismo, è stato rimosso nel 2020 dopo una protesta. Allo stesso modo alcune delle opere storiche in mostra, comprese le teste di Buddha, saccheggiate rimuovendole dalle rispettive statue, non erano che un monito del periodo coloniale e sono state tolte dal percorso di visita.
Ora alcune delle nuove acquisizioni – dipinti, sculture, ceramiche, stampe – sono confluite in una mostra intitolata Into View: New Voices, New Stories. L’intento dell’esposizione è di sfidare e sovvertire le convenzioni trasformando narrazioni, stereotipi e consuetudini. Opere come Heroine di Rupy C. Tut (nata in India, 1985), che fa riferimento a un racconto popolare punjabi, e Nuwa’s Hands di Cathy Lu (nata negli Stati Uniti, 1984), una visione contemporanea di una dea mitologica cinese, recuperano l’immaginario tradizionale per attualizzarlo. Quello che sembra essere un tradizionale dipinto paesaggistico cinese di Wu Chi-Tsung (nato a Taiwan, 1981) è in realtà formato da strati scultorei di carta fotosensibile stropicciata, mentre un film sperimentale di TT Takemoto (nato negli Stati Uniti, 1967) scruta sotto la superficie dei filmati documentari di donne operaie nippo-americane per rivelare un’atmosfera intima di romanticismo tra persone dello stesso sesso.
“Dando priorità all’identificazione delle donne e alle voci queer della collezione, questa selezione mira a cambiare il modello della storia dell’arte dominata dagli uomini”, afferma Naz Cuguoglu, assistente curatore della mostra. Incorporando riferimenti alla cosmologia, alla mitologia, alle preoccupazioni ecologiche e alle rivolte politiche, le opere esposte condividono una modalità di narrazione che la studiosa e professoressa Donna Haraway ha definito “fabulazione speculativa”. In generale, la fabulazione speculativa descrive una strategia di defamiliarizzazione e reimmaginazione di storie, idee e modalità di pensiero accettate, per arrivare a generarne nuove e fantastiche. Attraverso questa modalità ogni spettatore è chiamato ad essere un partecipante attivo nella creazione di una nuova narrazione, che non vuole stravolgere la precedente ma ampliarla fino anche a marginalizzarla, in un contesto ampio capace di considerare le nuove e più sensibili esigenze della contemporaneità.